L’arte di convincere i consumatori
La disciplina del marketing – in cui l’arte prevale sulla scienza
Non so se ogni pubblicitario debba avere una sua definizione della pubblicità. Il fatto è che fui obbligato a improvvisare la mia in diretta, durante un’intervista in televisione. I miei neuroni lavorarono a gran velocità e dissi subito:
«La pubblicità è... l’arte di convincere i consumatori».
Come avrete indovinato, da quel giorno cominciai a usare questa frase e, con gli anni, l’ho sedimentata fino al punto di farne definitivamente “la mia definizione”.
Ho una particolare ostinazione sulla parola arte, perché in tutte le discipline di marketing c’è una formula magica basata su una certa proporzione fra scienza e arte.
Può darsi che fra tutte la pubblicità sia quella in cui la bilancia pende di più dalla parte dell’arte. Ma la scienza è lì e fa da contrappeso, come un alter ego indispensabile, per impedire che le fantasie artistiche portino il pubblicitario fra le nuvole e lo allontanino dalla realtà del mercato. Permettetemi di fare una confessione. Non sono geniale, e direi che ho la fortuna di non esserlo, perché quella che è stata, è e sarà la mia grande passione e professione, la pubblicità, non ha bisogno di geni.
Invece premia il professionista con sensibilità e buon senso. Chi sa tenere i piedi per terra e riservare un grammo di follia creativa solo per quando è necessario.
Chi ottiene risultati, chi sa far suonare il registratore di cassa dei sui clienti.
E c’è una seconda confessione, senza falsa modestia. Credo di essere stato un buon venditore. Vendere è un’arte, un’arte da uomini e non da geni. Perché ha nella tecnica il suo migliore alleato, ma ha bisogno di quella scintilla magica che solo l’intuizione può dare.
Mescola un grammo di intuizione con una buona dose di buon senso in una pentola fabbricata con le tecniche più avanzate. I risultati possono essere esplosivi. Così si può scoprire la formula segreta della pubblicità efficace.
La mia prima agenzia di pubblicità si chiamò Venditor. Dal verbo vendere, in latino. Sono più di quarant’anni che vendo e questa esperienza mi permetterà di illustrare con molti esempi tutte le tecniche necessarie nella pubblicità. Sulla corda ondeggiante del mercato, solo l’equilibrio fra scienza e arte, fra ricerca e creazione, ci permette di camminare evitando il rischio di cadere nel precipizio.
Come si comporta il consumatore
La pubblicità è un ponte fra il prodotto, o il servizio, e il consumatore. Ce ne sono infinite versioni. Può essere un ponte di pietra o di ferro, romantico o di disegno ultramoderno, sicuro o rischioso, largo o stretto, e così via.
La pubblicità non è una strada da percorrere, ma da tracciare. Non siamo viaggiatori o alpinisti, ma ingegneri di ponti e strade. Dice Antonio Machado:«no hay caminos si no que el camino se hace al andar» – non ci sono strade se la strada non si fa camminando. Con il permesso del poeta, possiamo dire che in pubblicità forse si intuiscono strade, ma la strada vera si scopre percorrendola.
Analizziamo, dunque, come funziona la pubblicità partendo dalle esperienze di chi la usa, cioè i consumatori.
Come si comporta il consumatore? Ecco alcune osservazioni sugli atteggiamenti rispetto alla pubblicità che ci saranno di grande utilità. Permettono di evitare errori da principiante e risparmiarsi molti dispiaceri.
Il consumatore sceglie la pubblicità
Negli Stati Uniti si stima che la media delle proposte pubblicitarie che un consumatore incontra possa arrivare a 2000 al giorno. Nel nostro paese non ci sono studi così precisi, ma si pensa che siano più di mille.
Il problema dell’affollamento pubblicitario non è così nuovo come molti pensano. Nel 1759 Samuel Johnson scriveva su The Idler: «Gli annunci pubblicitari sono oggi così numerosi, che sono letti con negligenza, ed è perciò divenuto necessario conquistare l’attenzione con magnificenza di promesse, e con eloquenza talvolta sublime e talvolta patetica».
Non è sorprendente, perciò, che il consumatore cerchi il modo di evitarla. Ciò che oggi facciamo con il telecomando esisteva molto prima che i mezzi elettronici lo rendessero più facile. L’occhio umano è capace di saltare quasi istintivamente gli annunci in un giornale o in una rivista .
Più ampiamente, il sistema percettivo ci permette di eliminare e “non vedere” o “non sentire” ciò che non ci interessa. Anche indipendentemente dalla pubblicità, la quantità di stimoli quotidiani è infinitamente superiore alla nostra capacità di percepirli. Prove sperimentali hanno dimostrato come le persone sappiano “non vedere” (o rimuovere) qualcosa se per loro non è interessante, anche se l’hanno davanti agli occhi. Questo è uno dei motivi per cui è molto difficile far “cambiare idea” a una persona.
Il consumatore oggi è un esperto nell’uso delle tecniche di selezione per filtrare i messaggi che riceve. Un esame superficiale dei messaggi gli basta per decidere quali ascolterà ed elaborerà e quali ignorerà spietatamente.
Ci sono solo due grandi fattori in gioco in questa selezione: le sue esigenze, i suoi gusti e umori del momento; e la nostra capacità creativa per essere rilevanti e richiamare la sua attenzione.
Dei mille messaggi quotidiani, un consumatore normale arriverà a ricordarne con precisione tre. I restanti 997 possono rimanere sterili, perciò nella lotta per superare questa soglia non dobbiamo lesinare sforzi creativi.
Il “ricordo” specifico di un messaggio pubblicitario non è la misura della sua efficacia. Ci sono annunci, film, manifesti eccetera che ricordiamo, per qualche loro caratteristica insolita o interessante, ma di cui non teniamo alcun conto nelle nostre scelte. Ci sono, invece, infinite cose di cui siamo convinti anche senza ricordare esattamente da quale persona, fonte, fatto o circostanza abbiamo ricavato quella convinzione. Questo vale anche per la pubblicità. Raccogliamo ciò che ci interessa o può esserci utile, dimentichiamo il resto. Ogni messaggio che riceviamo (pubblicitario o non) non è un segnale isolato; nel momento in cui lo percepiamo si mescola immediatamente con le nostre conoscenze, esperienze e opinioni, diventa una nostra conoscenza, che può essere molto diversa da ciò che qualcuno aveva intenzione di dirci. La non comprensione di questo “metabolismo” mentale è uno dei motivi per cui si produce tanta comunicazione inefficace. È vero, comunque, che la quantità di stimoli (pubblicitari e non) cui siamo sottoposti ogni giorno è enorme; superare da barriera del “rumore” e cogliere la nostra attenzione è tutt’altro che facile.
Il consumatore si aspetta dalla pubblicità informazione, comunicazione interessante e fiducia.
Come ogni atto di comunicazione, la forza e il valore della pubblicità dipendono dal suo destinatario. Deve essere rivolta a lui, pensata per lui, interessante per lui.
Come? Dedicando molta attenzione alle tre cose fondamentali che i consumatori si aspettano dalla nostra pubblicità: informazione, divertimento e fiducia.
L’informazione può essere di molti tipi. Può essere l’essenziale, cioè far conoscere le caratteristiche del prodotto. O andare oltre, per dimostrare come funziona, che cosa farà in favore del consumatore o in che cosa è diverso da altri prodotti simili.
Si considera utile anche un’informazione meno diretta, ma che può essere ugualmente decisiva, come il riferimento al tipo di persone che usano questa marca, o all’impresa che la produce, o a quegli altri valori che da una ricerca risultino i più importanti per il consumatore in quel prodotto.
Più si conosce il consumatore e si capiscono le sue esigenze, più vicina a lui sarà l’informazione.
La qualità del messaggio - che sia divertente, stimolante, interessante – è un altro fattore. Può attirare il pubblico e far sì che gradisca il messaggio, cosa del tutto desiderabile. La ricerca dimostra che se un annuncio è gradito vende di più.
Tuttavia, molti annunci non fanno altro che intrattenere. Alcuni arrivano all’estremo di preoccuparsi così tanto di essere attraenti da dimenticare di spiegare a spettatori o lettori a che cosa serve il prodotto. Questa caduta in picchiata nel mondo dello spettacolo può essere mortale se non ci si protegge con le reti di sicurezza dell’informazione e della fiducia.
Nella vita è straordinario avere veri amici, amici di cui ci si può fidare ciecamente. La fiducia non è qualcosa che si improvvisa. È difficile e lenta da conseguire, facile da perdere. Richiede serietà, perseveranza... e anni.
In pubblicità, la fiducia non si conquista con l’impatto, ma con un processo graduale. La fiducia totale arriva solo come risultato di tante piccole fiducie parziali che si concedono ai prodotti.
Se qualcuno crede nel nostro prodotto e lo compra una volta vuol dire che comincia a darci fiducia, ma questo ci obbliga a non deluderlo. Si è dimostrato precisamente, in base a ricerche, che quando qualcuno ha comprato un prodotto una volta è più disposto a prestare attenzione alla pubblicità di quel prodotto, perché sente la necessità di dimostrare a se stesso che la sua scelta è stata giusta e il prodotto merita di essere usato. A questo punto il processo di costruzione della fiducia è appena all’inizio.
Il consumatore non è fedele a una sola marca: sceglie entro una gamma.
Forse la nostra sarà una storia d’amore, ma non durerà tutta la vita. Il supermercato non è un tempio in cui i matrimoni si consacrano per l’eternità. La fedeltà è un’utopia in un mercato dove il verbo comprare si coniuga facilmente.
Andrew Ehrenberg della London Business School dimostrò, al di là di ogni dubbio, non solo che i consumatori di una marca ne comprano anche altre nella stessa categoria, ma anche che nella maggior parte del settore alimentare solo dieci consumatori su cento comprano esclusivamente la stessa marca per tutto un anno.
Le sue ricerche dimostrarono che ogni consumatore ha un repertorio di marche. Ognuna di esse è intercambiabile con le altre, perché probabilmente ognuna di esse è acquistata abitualmente da quel consumatore. Quelle che non fanno parte del suo repertorio sono percepite come non accettabili.
Perciò, il primo obiettivo della pubblicità è far sì che la nostra marca appaia in questa short list, in questa ristretta lista privata di marche pre-scelte. Ogni altra cosa è una predica nel deserto.
È un ammonimento molto importante per le nuove marche che hanno la pretesa di introdursi nel mercato. L’immodestia fa sì che qualche volta questi “forestieri” o nuovi arrivati dimentichino la loro condizione e pretendano di sedurre fin dalla loro prima apparizione in pubblico.
Il miglior consiglio è salire passo per passo. Che si fidino della nostra marca sarà il primo risultato. Una volta salita sulla scena, dovrà abituarsi a condividere gli applausi con altre stelle, cercando di avere più ammiratori delle sue rivali. Solo così potrà arrivare ad essere la “prima donna”.
Il consumatore cerca informazioni se il rischio è alto, e trova nella fedeltà l’acquisto sicuro.
Ci sono prodotti il cui acquisto è associato a un certo rischio, come per esempio le automobili per il loro prezzo, o gli alimenti infantili per la responsabilità che si assume. Quanto più alto è il rischio, tanto più estesa è la ricerca e più probabile che il consumatore presti attenzione a varie fonti di informazione, compresa la pubblicità.
La pubblicità non deve ingannare. E non mi riferisco solo all’inganno sulle aspettative create per il prodotto, anche se questo è uno dei peccati più gravi che si possano commettere, ma a tutto ciò che può lasciare un senso di delusione, nell’esperienza immediata o a distanza di tempo. Parlo di non deludere il consumatore preoccupato per il rischio che deve assumere, ansioso di trovare informazioni e argomenti convincenti nella nostra comunicazione.
La sfida per la pubblicità è lavorare con misura. E quando si lavora per un prodotto nuovo o a rischio alto, o per una nuova marca, informare è più importante che sedurre. Ci sono diversi tipi di rischio, come quelli che derivano dall’uso del prodotto (come nel caso degli attrezzi meccanici o degli insetticidi) o quelli che riguardano la soddisfazione delle aspettative (come nei prodotti di prezzo alto, quali le automobili, gli elettrodomestici o le vacanze) o i rischi psicologici di relazione (in quei prodotti di consumo che implicano ostentazione della marca, come la moda, le bevande alcoliche, le sigarette ecc.).
Essere consumatore non è una professione cui ci si dedica in modo esclusivo. Tutti siamo consumatori e facciamo scelte di acquisto; né il tempo né le altre nostre vocazioni e occupazioni ci permettono di essere assolutamente rigorosi e coerenti nelle nostre scelte quotidiane.
Ciò che può aiutarci a ottenere la fedeltà del consumatore è conoscere le sue abitudini. Il bombardamento di novità già contribuisce a rompere la routine, ma l’istinto di conservazione fa sì che, in certi acquisti, prevalga la scelta abituale e sicura. Per evitare rischi e non perdere tempo.
Conoscere questo atteggiamento è altrettanto utile per la marca consolidata – che deve cercare di rafforzare le abitudini di acquisto – quanto per la marca nuova, il cui obiettivo è romperle.
I benefici sociali della pubblicità
Oggi la pubblicità è accettata dalla maggior parte di noi perché ormai si è integrata perfettamente nella nostra vita e fa parte della nostra esperienza quotidiana. Forse più che una critica frontale come quella che superò al suo inizio, oggi incontra opposizione soprattutto da parte di coloro che se ne sentono saturati.
Il maggior difetto della pubblicità è che ce n’è troppa. Non so se è un problema che si risolverà, o no, nel tempo.
Ovviamente la pubblicità non è perfetta. Né peggio di tante altre cose. È reale come la vita stessa. Nasce a immagine e somiglianza dell’uomo e delle sue abitudini sociali. Come specchio fedele della nostra società, è logico che non le manchino i difetti.
Tuttavia, a margine del discorso su come funziona la pubblicità e su tutti i suoi meccanismi, vorrei lasciare un po’ di spazio in questo primo capitolo ad alcuni benefici sociali della pubblicità, che forse non riconosciamo perché li diamo per scontati, ma sono decisivi nella nostra vita di oggi.
Vorrei avvertirvi che ciò che leggerete da qui in avanti può essere considerato un annuncio pubblicitario, perché sarà una raccolta di argomenti che indicano fino a che punto la pubblicità influisce positivamente sull’evoluzione sociale.
Spero che questi argomenti siano convincenti, come una buona pubblicità per la pubblicità. Perché la buona pubblicità può essere solo questo: argomentare e convincere.
A) La pubblicità migliora la relazione qualità/prezzo
Pubblicità, marketing e concorrenza sono i diretti responsabili della riduzione dei prezzi. Un esempio moderno di questo fatto sono i viaggi organizzati. Grazie alla pubblicità la gente viaggia di più, e farlo è ogni giorno di più alla portata di tutti i portafogli.
Un altro esempio riguarda il gli avvocati americani. Da quando fu tolto il divieto di fare pubblicità ai servizi legali, si scatenò la concorrenza. Già ne dava notizia The Economist nel 1978. «L’uso di una pubblicità poco sofisticata e fatta in casa da meno del tre per cento di tutti gli avvocati è bastato per iniziare una rivoluzione nel mondo del diritto. Il costo di servizi come testamenti o divorzi è dimezzato».
B) La pubblicità promuove l’innovazione
Fibre artificiali, elettrodomestici, pentole antiadesive, personal computer, carte di credito, veicoli con freni a disco, servosterzo e ABS. Tutte queste sono state innovazioni, ognuna con costi enormi. Solo dopo esser passate dalla prova del fuoco del mercato, attraverso la pubblicità, hanno potuto essere confermate e accettate dalla nostra società. La risposta massiccia alle loro vendite ha permesso di migliorarle e di abbassarne il prezzo per metterle a disposizione della maggioranza.
C) La pubblicità sviluppa la libertà di scelta
Dice l’Associazione europea delle agenzie di pubblicità: «La pubblicità sviluppa e potenzia la libertà di scelta, diritto considerato come l’essenza della democrazia”. Fernando Romero ha scritto nel suo saggio El derecho de elegir (“il diritto di scegliere”): «Il marketing è un’espressione evidente della democrazia. La decisione della scelta sta nelle mani del consumatore. Giorno per giorno traccia con le sue azioni la strada del successo o fallimento dei politici e dei prodotti. Potremmo dire che con i suoi acquisti quotidiani sta votando, come potremmo dire che con il suo voto ogni quattro anni sta comprando. Comprando idee, speranze, progetti. E, soprattutto, esercitando il suo diritto di scegliere».
D) La buona pubblicità forma e informa il consumatore
La pubblicità del tabacco e dell’alcol è un tema di costante dibattito. La pubblicità influisce sulle abitudini di consumo, ma può farlo nei due sensi. Come elemento di informazione pubblica, i progressi nella sensibilizzazione sociale sui problemi derivanti dall’abuso di tabacco e alcool sono dovuti anche a campagne pubblicitarie.
È ampiamente dimostrato che la pubblicità, mentre ha contribuito fortemente all’affermazione di singole marche (per esempio, al successo mondiale delle Marlboro) ha avuto una scarsissima influenza sulla diffusione generale dei consumi di alcol o di tabacco. Per trent’anni in Italia, nonostante divieto totale della pubblicità per i “prodotti da fumo”, il consumo di sigarette ha avuto un forte aumento, anche fra i giovani. Solo molto più tardi è diminuito, per effetto di una forte corrente di opinione che è partita dagli Stati Uniti e si è diffusa in Europa, come in altre parti del mondo. In senso inverso, per molti anni è diminuito continuamente il consumo di alcolici, benché ci fossero forti investimenti pubblicitari nel settore (che solo alcuni anni più tardi si erano ridotti, in seguito alla diminuzione dei consumi).
Ho avuto l’occasione di realizzare campagne istituzionali, come quella per la Generalitat de Catalunya “Non ingannarti, questo non è vita” per diffondere coscienza dei pericoli dell’abuso di alcool e tabacco, così come dei valori dell’esercizio fisico e di un’alimentazione sana.
L’aumento notevole del consumo di prodotti illegali – e perciò senza pubblicità – come le droghe pesanti, ha indotto i governi a ricorrere ai migliori pubblicitari per lanciare campagne informative e di presa di coscienza rivolte ai giovani e ai gruppi a maggior rischio. La pubblicità si è rivelata uno degli strumenti efficaci di formazione e prevenzione.
Purtroppo accade raramente in Italia. Finora la “pubblicità sociale“ nel nostro paese si è rivelata quasi sempre un fallimento o uno spreco (con qualche lodevole, ma rara, eccezione). Questo non è dovuto solo ai criteri di assegnazione dei contratti, spesso influenzati dagli stessi meccanismi perversi che hanno condizionato tante altre attività pubbliche in Italia. Il problema più importante (che non si risolve certo con i controlli formali della Corte dei Conti o del Consiglio di Stato) è la scarsità di strategie chiare, di strutture di servizio adeguate – in generale di quella che in un’area commerciale si definirebbe una “strategia di marketing”. Quasi tutti i nostri ministeri o servizi pubblici, quando fanno pubblicità, badano più a “farsi belli” per raccogliere voti e simpatie che a raggiungere risultati o dare un vero servizio alla società civile. Lo stesso fenomeno ha influito perfino su alcune campagne di “pubblicità progresso”, mirate più a “dare lustro” all’istituto che a ottenere risultati concreti e misurabili.
E) La pubblicità può contribuire all’evoluzione del costume sociale
La pubblicità non può non tener conto dell’evoluzione del costume e della società. Come ha ben detto Néstor Lujan in uno dei suoi articoli, «La pubblicità è il riflesso dei nostri costumi».
La pubblicità ha favorito l’uso di soluzioni domestiche pratiche nel pieno della rivoluzione famigliare per l’aumento dell’occupazione femminile. Qualche volta la pubblicità riesce ad anticipare una tendenza, come racconterò nel caso di Prénatal, un cliente che mi è particolarmente caro: insieme riuscimmo a far si che i papà si sentissero orgogliosi di prendersi cura dei loro bambini.
La buona pubblicità lavora a favore della corrente; quando è realizzata con approfondimento e intelligenza, la sua spinta innovatrice può anticipare i cambiamenti annunciati, favorire o stimolare l’evoluzione sociale.
La pubblicità è uno strumento di progresso, di comunicazione, fatto a misura delle esigenze umane e con grandi possibilità di migliorare la qualità della nostra vita. Come ogni strumento, può essere usata male; ma quando è fatta bene e con coscienza i suoi benefici sociali sono straordinari.
Il 15 giugno 1931, in un discorso all’Advertising Federation of America, Franklin D. Roosevelt disse:
«Se ricominciassi la mia vita, credo che preferirei lavorare in pubblicità che in qualsiasi altra professione. Perché la pubblicità è arrivata a coprire l’intera gamma delle esigenze umane; e unisce autentica fantasia allo studio profondo della psicologia umana. Poiché porta a un gran numero di persone la conoscenza di cose utili, la pubblicità è essenzialmente una forma di educazione... Il generale miglioramento delle condizioni di vita nelle civiltà moderne sarebbe stato impossibile senza quella conoscenza di livelli più elevati che è diffusa dalla pubblicità».
Questo testo è tratto dal capitolo 1 del Nuovo libro della pubblicità.
(Il testo è di Luis Bassat; le parti in corsivo sono aggiunte e commenti di Giancarlo Livraghi)
www.gandalf.it
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